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17 Dicembre 2019
Quando H2H ha annunciato di essersi evoluta nella prima Circular Agency italiana, sono stato protagonista di numerose interviste su questo topic. Vari giornalisti della stampa di settore mi hanno posto decine di domande sui motivi alle spalle di tale posizionamento. C’è stato chi mi ha chiesto dettagli sul nuovo offering, chi era interessato a capire le prospettive che avevamo per il futuro, chi desiderava sapere il significato che attribuiamo alla parola “circular”. E, con una punta di malizia (giustificata e giustificabile, sia chiaro), non è mancato chi mi ha posto il quesito “Piuttosto che un nuovo brand positiong, non è che state assecondando una moda in costante diffusione? Soprattutto se si considerano temi come la sostenibilità e l’economia circolare?”.
Niente panico, la risposta era davvero semplice se, come accaduto in H2H, il fenomeno dell’economia circolare è stato sviscerato e ispezionato in ogni suo dettaglio. Ecco che, in risposta all’interrogativo, era sufficiente elencare i razionali a supporto del fatto che H2H si stesse inserendo in una nuova modalità di affrontare il mercato della comunicazione (e non solo). Una modalità che coinvolge le aziende presenti e, si presume, farà lo stesso con quelle future. Citavo così le dichiarazioni sul “purpose” firmate dai 181 Amministratori Delegati alla Business Roundtable americana, nell’agosto 2019. O ricordavo le parole a favore dell’economia circolare pronunciate da Jamie Dimon (presidente di JP Morgan), James Gorman (CEO e presidente di Morgan Stanley) e Larry Fink (numero uno di BlackRock).
Ogni argomentazione ha però tanto più valore, quanto sono efficaci le case histories di successo portate a dimostrazione. In simili situazioni, preferisco spesso richiamare il caso di Patagonia e del suo progetto Worn Wear. Non sarà il più recente, ma sicuramente il più incisivo e riconosciuto su scala globale. Ne sono testimonianza gli svariati premi e riconoscimenti che gli sono stati conferiti, tra cui l’Accenture Strategy Award per l’Economia Circolare Multinazionale (World Economic Forum 2017). Si tratta di una case history di rilievo assoluto: in primis, per aver unito innovazione, sostenibilità e circolarità in un’ottica result-oriented. Altrimenti non si spiegherebbe come Patagonia sia un business multimilionario, celebrato a quasi ogni latitudine.
Worn Wear venne introdotto nel 2013. Il suo messaggio era semplice: “If it’s broke, fix it”, invitando i clienti a prendersi cura dei propri capi, riparandoli quando necessario e riciclandoli una volta raggiunto il limite di utilizzo. Patagonia ha così attivato stazioni di riparazione al dettaglio in tutto il mondo, oltra a fornire gratuitamente gli strumenti per il fixing ai propri acquirenti. Senza contare che ogni riparazione effettuata da Patagonia fornisce utili feedback ai designer dell’azienda, per migliorare i prodotti in uscita.
Nell’estate del 2017, il brand scelse di portare il progetto a un next step, lanciando la piattaforma e-commerce Worn Wear (da qui, la maggior parte dei premi accennati poco fa). Sul portale, l’azienda vende abbigliamento e accessori Patagonia usati. I clienti che consegnano tali capi presso i rivenditori locali Patagonia ricevono in cambio crediti per futuri acquisti di prodotti del brand. L’operazione Worn Wear ha quindi come obiettivo prolungare la vita dei capi Patagonia, incoraggiare gli utenti a vendere i vestiti inutilizzanti, mantenere la fan base e aumentarla raggiungendo nuovi clienti, promuovere l’awareness rispetto ai prodotti Patagonia in termini di durata e qualità.
È palese, insomma, come Worn Wear parli un idioma circular. In fin dei conti, il grande target della circular economy è non creare spazzatura. Secondo i dettami dei suoi maggiori esponenti, le discariche dovrebbero essere vuote grazie a prodotti che vengano costantemente riciclati e riutilizzati.
Uno degli aspetti più interessanti di Worn Wear è tuttavia come tale progetto abbia fatto scuola nel mondo del fashion. “Per le grandi aziende, cambiare le modalità di comunicazione e vendita comporta dei rischi… Ma il rischio più grande è non essere rilevanti agli occhi dei customer“, ha dichiarato Julie Gilhart, creative business consultant di fama mondiale, a proposito di Patagonia.
I risultati ottenuti dal brand hanno contribuito a convincere altri competitor nell’intraprendere percorsi circular: dal punto di vista economico, Patagonia ha ottenuto 710 milioni di dollari dalle vendite, solo durante il primo periodo del progetto (di cui l’1% viene donato ogni anno a organizzazioni per la salvaguardia ambientale). Giusto per citare alcuni competitor convertiti, si può far riferimento a H&M o Kering.
Ma, forse, il vero segreto per capire il Patagonia-gate è nascosto (non troppo) nelle parole della suo CEO, Rose Marcario: “Non dobbiamo reinventare la ruota. I brand che non fanno i conti con i reali costi del fast fashion saranno però lasciati indietro, in ottica di mercato”.
Traslato nel mondo delle agenzie di marketing e comunicazione, lo stesso pensiero vale per H2H. La nostra challenge è diventare riferimento di un modo nuovo di operare nel nostro settore, in un contesto globale in cui crescono le aspettative dei consumatori rispetto alle aziende. H2H si pone perciò come partner per aziende e brand, accompagnandole in una trasformazione autentica, concreta e coerente con le nuove esigenze socio-economiche globali.
di Paolo Romiti_Presidente e Amministratore Delegato
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